(Testo tratto dall’articolo “Il dono come buona pratica della gratuità”, pubblicato sulla rivista Dialoghi n. 3/2009, in uscita).
Esiste nell’essere umano un sentimento che spinge alla ricerca appassionata di ciò che si confà alle sue esigenze, che ha il nome di desiderio. Il desiderio umano, quando non è deviato, si volge alle cose come a dei beni che lo appaghino. Ma può sbagliare mira. Perché alcuni dei beni cui esso si volge sono beni apparenti, cioè mali: beni che sembrano soddisfarlo, ma che in realtà lo piegano verso il disordine e lo spingono verso l’infelicità. Il desiderio è in sé l’energia della vita, ma si possono desiderare cose che fanno fiorire e cose che ci fanno appassire. Ebbene, l’avarizia è un desiderio che fa appassire. È il deragliamento del desiderio che cresce su se stesso. Sappiamo perché. I beni diventano beni, cioè cose buone, quando sono messi in comune. I beni non condivisi sono sempre vie di infelicità, persino in un mondo opulento. Il denaro tenuto stretto, come geloso possesso, in realtà impoverisce il suo possessore, perché lo spoglia della capacità di dono. L’avaro, per definizione, non riesce a donare e dunque non può essere felice. Può fare regali, può cioè impegnarsi in pratiche filantropiche se ciò gli serve, strumentalmente, ad accrescere il suo possesso.
Rifiutandosi di legarsi all’altro, l’avaro non riesce a tradurre in pratica il messaggio della regola d’oro: “Ama ogni altro come te stesso”. E questo per la semplice ragione che l’avaro non ama se stesso, ma solamente “la roba” che accumula. Secondo la celebre espressione di Kierkegaard, la porta della felicità si apre verso l’esterno, sicché può essere dischiusa solo andando “fuori di sé”. Il che è proprio quanto l’avaro non riesce a fare.
Oggi siamo forse in grado di andare oltre la riduttiva interpretazione di Voltaire secondo cui «gli uomini odiano coloro che chiamano avari solo perché non ne possono cavar nulla» e di vedere nell’avarizia il vizio capitale che, se non controbilanciato da autentiche e vaste pratiche di gratuità, può minacciare la sostenibilità del nostro modello di civiltà. L’aveva ben compreso Dickens, che nel suo Canto di Natale (1843) fa compiere al freddo e avaro Ebeneezer Scrooge il gesto rimasto celebre, indimenticabile. Il vecchio finanziere della City, che mai aveva speso un centesimo e che considerava il Natale una perdita di tempo e dunque di denaro, alla fine scopre la verità su di sé, assieme a qualcosa della vita che non aveva ancora assaporato. Nell’incredulità generale, comincia a distribuire non solamente il denaro ossessivamente accumulato nel corso di una vita guidata dalla passione dell’avere, ma anche simpatia e tenerezza. E da ciascuno si congeda con le parole: «Vi ringrazio, vi sono molto, molto riconoscente». Finalmente, da vecchio, l’avaro Scrooge aveva scoperto cos’è la reciprocità e con essa aveva assaporato la felicità.
Ha scritto Camus in Nozze: «Se c’è un peccato contro la vita, è forse non tanto disperarne, quanto sperare in un’altra vita e sottrarsi all’implacabile grandezza di questa». Camus non era credente, ma ci insegna una verità: non bisogna peccare contro la vita presente squalificandola, umiliandola. Non si deve perciò spostare il baricentro della nostra fede sull’aldilà tanto da rendere insignificante il presente: peccheremmo contro l’Incarnazione. Si tratta di un’opzione antica che risale ai Padri della Chiesa che chiamavano l’Incarnazione un Sacrum Commercium per sottolineare il rapporto di reciprocità profonda tra l’umano e il divino e soprattutto per sottolineare che il Dio cristiano è un Dio di uomini che vivono nella storia e che si interessa, anzi si commuove, per la loro condizione umana. Amare l’esistenza è allora un atto di fede e non solo di piacere personale. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solamente il futuro, ma anche il presente, perché abbiamo necessità di sapere che le nostre opere, oltre ad una destinazione, hanno un significato e un valore anche qui e ora.