Il Concilio in parole povere (e in parole di laico ai figli).
Quali i punti fondamentali, dunque, dell’aggiornamento?
da Paolo Giuntella, Strada verso la libertà. Il cristianesimo raccontato ai giovani, Edizioni Paoline, 2004
Come, dunque, un semplice laico cristiano, impegnato nella sua professione e culturalmente immerso nella laicità della cultura contemporanea, può riassumere quelli che sono stati, alla sua percezione e alla sua esperienza, i frutti del Concilio, i punti di non ritorno? Almeno, come appaiono alla sua sensibilità? La ripresa, anzitutto, dell’ascolto dell’umanità. Senza nessuna pretesa di giudizio, quanto piuttosto di compassione, di «patire insieme», di sentire insieme le domande profonde, i dubbi e le speranze dell’uomo contemporaneo. Il passaggio dalla rassegnazione alla speranza, dal «dolorismo» moralista alla gioia della liberazione, alla spiritualità della risurrezione che non esclude la croce ma torna a centrare la debolezza della croce nella forza mite e povera della redenzione. I cristiani non sono più una rigida società perfetta divisa tra gerarchia e fedeli, ma una comunità di redenti, il popolo di Dio. L’affermazione della dignità della Chiesa locale che è fondamento della Chiesa universale. Una fede da inculturare nelle culture dei popoli e non da imporre secondo la propria cultura europea, occidentale, latina. Il principio di collegialità dei vescovi come cammino di ritorno allo stile della Chiesa primitiva. Ma soprattutto il ripristino della centralità della parola di Dio, della Bibbia, come cuore e fondamento della ricerca teologica, della preghiera, della spiritualità, dell’evangelizzazione e della stessa pastorale. Dunque la centralità della signoria del Cristo e del suo annuncio, nella nudità e purezza della Rivelazione.
Sono conquiste straordinarie e impensabili (anche se non sono novità, è semplicemente il ritorno alla Tradizione, alle origini, un ritorno liberato dal peso della storia, del trionfalismo, del temporalismo, delle «tradizioni») solo qualche anno prima del Concilio. Ne racchiudono il soffio, lo Spirito non esaurito. E vale la pena di ricordare, soprattutto ai più giovani o distratti, che il Concilio conta molto di più di qualsiasi enciclica – per quanto bella – ed è sviluppo della Rivelazione, dinamica dello Spirito. Naturalmente sono novità – o meglio processi di ritorno alle origini – che non si possono realizzare o compiere in un percorso relativamente breve negli anni. E’ uno spirito nuovo che va interiorizzato. Novità che hanno creato tensioni, conflitti, reazioni, tentazioni di tornare indietro, forse anche minore efficacia di presenza, un’apparente debolezza. Ma in realtà proprio la debolezza è il segno più forte del ritorno alle origini: la debolezza della croce nei confronti del mondo, dell’organizzazione mondana, così come fu intuita dai santi-profeti, da Francesco d’Assisi a Benedetto Labre, da monsignor Romero a Helder Camara, dal cardinal Pellegrino a Vittorio Bachelet con la scelta «religiosa» dell’Azione Cattolica. Un processo di purificazione – progressiva e tuttora in marcia, ma inarrestabile nonostante tutte le anse e i venti di bonaccia, le lentezze e le tentazioni di fermare il tempo, con spinte e controspinte – della Chiesa dal potere, dalla riduzione del cristianesimo a civiltà temporale e temporanea, a cultura, a deposito di morale, a perbenismo, a centrale di cultura d’ordine e rassegnazione.
L’Orgoglio dell’Azione Cattolica deve essere proprio quello di essere parte di questo cammino con la sua scelta religiosa che non fu rinuncia ma, al contrario, più autentica ambizione cristiana, primato dell’evangelizzazione; non rinuncia a vivere il rapporto fede-politica, fede-storia, non rinuncia all’educazione all’impegno e alla formazione di laici impegnati anche nel politico, ma liberazione da ipoteche e collaterismi politici. Una grande scelta di maturità laicale. Si osa dire: ma l’Azione Cattolica senza scelta religiosa ci sarebbe ancora in Italia? Quante perdite per ragioni «religiose» e di coscienza avremmo dovuto pagare e contare? Pensate, a proposito di frutti, alla riforma liturgica. Chi oggi potrebbe pensare anche solo lontanamente di tornare alla messa in latino e uguale per tutti dall’Irlanda al Salvador, dal Congo all’India, incomprensibile per la stragrande maggioranza anche in Italia e nei Paesi latini; alla parola di Dio nascosta nell’antica lingua; a liturgie forse piene di misteriosità (la parola mistero è ben più seria), di ritualità lontana, senza partecipazione?
Un linguaggio liturgico fissato per sempre nel tempo al di là dei mutamenti del lessico popolare, delle espressioni d festa o di lode, dei gusti musicali?
Chi di noi potrebbe oggi fare a meno della dimestichezza con la Bibbia (e in particolare con l’Antico Testamento, tanto a lungo relegato a racconto di pochi personaggi, quasi fosse una mitologia più che la Rivelazione in cammino nel popolo di Dio)? E che dire dell’apertura ecumenica e del decreto sulla libertà religiosa, che non fu il cedimento a un pericoloso vizio modernista o una perdita di identità, ma il paziente, tenace, percorso di riparazione del grandissimo scandalo e peccato della divisione (scaturita assai più per motivi politici e culturali che per motivi teologici, almeno agli inizi)? Un tracciato irreversibile: non è progressismo, anche in questo caso è un cammino di ritorno alle origini.
Alla Tradizione cristiana primitiva. La liberazione del popolo di Dio dalla prigione della società perfetta, della cristianità, della civiltà cristiana, tutte cose incompatibili con l’esperienza cristiana perché riduzioni ideologiche. Una specie di tana libera che cancella l’espressione passiva e suddita di «fedeli» perché finalmente siamo, torniamo a essere «popolo di Dio». In questo processo di purificazione il più grande atto del Giubileo del 2000, la giornata del perdono, della purificazione della memoria, è stato il frutto del Concilio (oltre che della volontà personale di Giovanni Paolo II). Il Concilio Vaticano II – appena appena in tempo, ma, si sa, i percorsi dello Spirito sono imprevedibili – accetta la sfida del dialogo con il mondo moderno e con le culture contemporanee.
La fine della società cristiana, della cristianità dominante e coincidente con la morale comune, con il buon senso comune. Inaugura un sentiero – con tutte le difficoltà, le pene, le paure, dunque le perdite – di passaggio dalla fede d’obbligo alla fede di convinzione. E se con il Vaticano II finisce l’età storica dell’eurocentrismo cattolico, per noi europei inizia il ritorno alla spiritualità dell’esodo, alla spiritualità della strada. «Non molto tempo fa la Chiesa si presentava come un’istituzione dominatrice, sicura di sé, in ragione della sua gloria infallibile», ricorda René Rémond, «infallibile e superba. Dopo il Concilio Vaticano II non lo è più, almeno ufficialmente. La Chiesa non intende più dominare la società, ma camminare con gli uomini. Non si considera più una società perfetta e superiore.
Abbiamo ben compreso tutta la portata di questo cambiamento?». E’ il ritorno del primato del Vangelo. Un ritorno ancora da compiere, un cammino in campo aperto con tutte le perdite numeriche ma anche le conquiste e le gioie dell’autenticità delle vocazioni laicali e religiose. «La catechesi iniziata dal Concilio ha avuto ragione di insistere sul fatto che il messaggio evangelico», afferma René Rémond nel suo libro – intervista Le christianisme en accusation, «invita ad una rottura a cambiare vita. Esiste una dimensione irrinunciabile della fede che propone anzitutto un’esperienza spirituale forte alla persona, in piena libertà. Oggi credere non è più un atto d’obbligo sociologico, la fede non si trova più preservata da un guscio, da un involucro ben sigillato. Il cristiano è gettato nel pieno vento dell’esistenza : sta a lui costruire la propria visione delle cose e del mondo». Così, da una visione deduttiva, calata dall’alto, fissata per sempre in un’idea astratta di ordine sociale cristiano da restaurare, si passa a una visione induttiva del rapporto Chiesa – mondo, fede – storia, fede – politica. Le categorie nuove (e antichissime, perché biblicamente fondate) diventano dunque : leggere i segni dei tempi, il discernimento, l’esodo, il dialogo (sul modello del dialogo di Gesù con la samaritana, con la Maddalena, con Zaccheo …), l’ascolto. Non più l’ordine da difendere ma la «liberazione» da affermare come popolo liberato, redento, sottratto alla tirannia della morte. Non più la pretesa di cristianizzare tutta la pasta., ma la volontà di essere lievito, il fermento, il sale.
Da conquistatori a servi, da dominatori ad animatori. Insomma lo statuto della Lettera a Diogneto. E’ lo spirito dell’avventura cristiana, del pellegrino, lo spirito della Gaudium et spes, che significa gioia e speranza, non pietà e rassegnazione. Nell’ultimo paragrafo di questa costituzione conciliare si legge un’affermazione estremamente importante, e non sempre e non pienamente ancora recepita e interiorizzata dai cattolici: « la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste in quella fede e carità effettivamente vissute, e non in una qualche sovranità esteriore esercitata con mezzi puramente umani» ( GS 42). E, proseguendo, la Gaudium et spes ricorda senza paura o indugio che la Chiesa cattolica «in forza della sua missione e della sua natura non è legata ad alcuna particolare forma di cultura umana o sistema politico, economico, o sociale» (una vera rivoluzione culturale rispetto al preconcilio) e proprio per questo può essere al servizio del dialogo e del processo di unità del genere umano al di là delle differenze culturali, religiose, storico – politiche.
I laici cristiani – al punto 43, fondamentale nell’aprire la strada all’autonomia del laicato nelle attività umane, dalle professioni alla ricerca scientifica e umanistica, dall’economia al sindacato e alle scelte politiche e legislative – sono invitati all’impegno senza perdere di vista (peccato di integralismo o di temporalismo) la città futura, ma anche senza astenersi dalle lotte, dai conflitti, dai percorsi istituzionali, nei quali si realizza (o si cerca di realizzare) la promozione umana. Durissimo il richiamo conciliare all’incoerenza («dissociazione») tra affermazione di fede o di identità – ridotte «esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali» – e la vita quotidiana, l’ortoprassi cristiana. Questa dissociazione «va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo». E qui siamo al passaggio chiave sul quale si fonda l’idea di laicità, e in particolare di laicità della politica: « Gioiscano piuttosto i cristiani, seguendo l’esempio di Cristo che fu un artigiano, di poter esplicare tutte le loro attività terrene unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio. Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione».
E’ la rivincita di tanti precursori, pionieri cristiani del ventesimo secolo: certamente la rivincita di Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari, di Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier, e dei teologi della «nuova teologia» francese, Chenu, Lebret (autore poi della celeberrima, e oggi purtroppo dimenticata, Populorum progressio di Paolo VI), Congar, e dei due ex assistenti della Fuci don Guano e don Costa, di padre Balducci, di don Milani, di don Mazzolari.
Infine ancora parole chiarissime – e in qualche caso, almeno in Italia, ancora incompiute – sia sull’autonomia dei laici impegnati in politica, sia sul pluralismo delle scelte politiche, e dunque sulla possibilità di pareri opposti tra i cattolici su programmi e soluzioni. Ascoltare per credere: non pensino i laici cristiani «che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumono invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero. Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza presto e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».
Certo, se ci riferiamo alle ipotesi sullo sviluppo, alla questione ambientale, alla giustizia economica e alla ridistribuzione delle risorse, possiamo evidentemente parlare del limite di questo documento: l’essere impregnato di ottimismo, un ottimismo ridimensionato dalle vicende conclusive del, secolo e dalle nuove emergenze. Ma questa riflessione, lungi dal considerare superata questa magna charta del laicato e questa tavola del dialogo tra Chiesa e mondo contemporaneo, semmai, piuttosto, richiama la necessità e la speranza di un nuovo Concilio ecumenico, come del resto è stato anche autorevolmente sostenuto. Quel che veramente conta, se vogliamo leggere il Concilio nel suo giusto spirito, è la lezione di metodo, la scelta dell’empatia e della fraternità con gli uomini, con le ricerche culturali, con i dubbi e le preghiere dell’umanità, con i poveri e i diseredati del pianeta.
Una Chiesa che accetta la debolezza della croce e accetta di trasfigurare l’icona della Bellezza (il volto di Dio) nell’icona della Tenerezza immersa nel volto sfigurato e sofferente dei poveri e degli ultimi. «La debolezza e la sofferenza sono costitutivi della condizione umana. E’ una dimensione essenziale del messaggio cristiano, il senso del valore infinito di ogni uomo, qualsiasi sia il suo status, la sua condizione.
E’ il significato profondo dell’ “opzione preferenziale per i poveri” sulla quale la Chiesa mette fortemente l’accento, e non soltanto in America Latina; il rifugio dei piccoli, dei deboli, i perdenti, i feriti dalla vita, che è stata portata avanti negli ultimi anni. E’ una delle evoluzioni più forti dell’era postconciliare: la Chiesa s’interessa meno delle élite rispetto al passato e prende in conto anzitutto gli emarginati e gli esclusi. E vuole essere testimone della tenerezza e della misericordia del Cristo servo. Cosa che è, del resto, il minimo per una religione che si richiama all’amore evangelico».
In questo senso il Concilio invita i cristiani, a partire dalla lettura dei segni dei tempi, a utilizzare gli strumenti dell’intelligenza umana – il discernimento e la mediazione culturale – e, alla luce della Parola e nell’empatia personale e comunitaria con Dio, li impegna in quanto popolo di Dio ad affermare la giustizia e la tenerezza del Signore, come anticipazione del Regno.
Il Concilio, se lo dovessi raccontare ai miei figli, è dunque l’affermazione della tenerezza del Cristo che si incarna nel volontariato, nella Caritas, nella scelta dei poveri, nell’uscita da una visione quietista, perbenista, benpensante, passiva, della fede. E tuttavia non riduce il cristianesimo a filantropia. Anzi: riconosce la capacità di volontariato, di solidarietà dei non cristiani e dei non credenti. E’ l’ingresso, nonostante il dolore, le sconfitte umane, le sconfitte dei nostri progetti, in una dimensione di speranza che è insieme libertà e impegno senza musoneria e moralismi: una pedagogia della trascendenza (e dell’escatologia).
La lezione di metodo della Gaudium et spes, in particolare, impegna i cattolici a non fermarsi all’affermazione di principi, ma anche a inventare nuove formulazioni, a rispondere ai nuovi bisogni spirituali e umani che si esprimono nei nostri giorni. In questo senso il Concilio esige di essere attuato e portato avanti, non custodito come un tesoro teologico o, peggio ancora, retorico. Se il Concilio e l’età conciliare si confrontarono soprattutto con il marxismo, oggi i cristiani si confrontano ogni giorno con il nuovo «pensiero unico», con il liberismo, che è anch’esso un’ideologia, un mix di cinismo pratico e culto ideologico del denaro come levatrice del mondo.
Attuare il Concilio significa continuare a «scrivere» la Gaudium et spes, con nuove analisi ma con la stessa lezione di metodo. Oggi significa, ad esempio, porsi alcune domande: Come resistere al pensiero unico? E al materialismo pratico occidentale? Come porsi nei confronti della globalizzazione esercitando il discernimento critico e la mediazione culturale? Come opporsi alla globalizzazione dei mercati e dell’impotenza locale della politica, del sindacato, delle istituzioni? Come opporsi alla macdonaldizzazione e al dominio della precarietà, della gratificazione istantanea? Come opporsi alla omologazione della ricchezza e dell’eccesso di ricchezza senza perdere i giovani e i poveri, i quali – non potendo più sperare nella rivoluzione o nella solidarietà di classe – affidano le loro speranze alle briciole del ricco epulone, al sogno di diventare ricchi calpestando gli altri?
Dobbiamo dunque ridefinire nelle società del benessere, e in un mondo senza sogni rivoluzionari, il senso della povertà, e della ricchezza, la spiritualità dell’essenzialità e la cultura del limite, per rifondare territori di progettazione politica e sociale non ideologica e invece attenta ai nuovi bisogni: la precarietà della vita come conseguenza del lavoro precario, le terribili incognite della devastazione ecologica, la crescita dei poveri nel terzo – quarto mondo ma anche nei Paesi ricchi, le dimensioni dei flussi migratori e dello sradicamento dei poveri, la questione – inimmaginabile negli anni in cui fu scritta la Gaudium et spes – dell’acqua della riduzione delle risorse idriche…
Insomma, quella domenica II ottobre 1962 si proietta in questo secolo con un’attualità ancora intatta. «Quel giorno» si è inverato un evento ancora incompiuto e soprattutto non consumato. Se tutti i grandi, e terribili, eventi del Novecento si sono consumati o hanno esaurito la loro spinta propulsiva, se tutte le rivoluzioni del secolo hanno concluso più o meno tragicamente il loro corso, non è così per il Concilio.
E questo non è solo il giudizio dei credenti, ma, dal punto di vista dei cambiamenti storici che ha innestato, può essere anche il giudizio dell’osservatore non credente, dello studioso dello storico del nuovo secolo. E se, certo, nell’oggi, la memoria di quel giorno è lontana dalla coscienza popolare, dalle esperienze di vita e dalle nozioni di grande maggioranza dei giovani, in realtà tutti i credenti, anche inconsapevoli, ne respirano ancora il soffio. E la storia «breve» del Novecento, così drastica nelle esaltazioni e nelle cancellazioni, nonostante la polvere accumulata sui lavori e sui documenti dalla tirannia effimera del primato della cronaca, non è riuscita a riporre in soffitta la portata, il senso profondo, l’eredità di questo evento di un giorno di ottobre del 1962 a Roma.
Anzi, quel giorno, la Chiesa cattolica cominciò un percorso di ritorno al futuro, di ritorno alle radici della Chiesa primitiva, all’autenticità dell’esperienza cristiana, che continua, che può soltanto espandersi, allargando nei tempi nuovi l’ampiezza del suo spirito di dialogo, di riconciliazione con le altre famiglie cristiane, con le altre famiglie dei credenti nel Dio unico Padre dell’umanità. Nessun altro evento del Novecento è proiettato nel futuro quanto quel Concilio Ecumenico Vaticano II, dunque quel giorno d’ottobre, dunque quella fiaccolata della sua vigilia. Ante et retro oculata, la vigilia della Chiesa continua.
Il Concilio è superato? Quando sento queste affermazioni – dette anche in buona fede – , sento puzza di bruciato. Temo, semplicemente, che con questa scusa si voglia tornare indietro. Temo che si voglia tornare a prima del Concilio – come certi segnali mostrano: il nuovo clericalismo, i movimenti « forti » a guida monarchica, la tentazione dei soldi per sostenere la «presenza cristiana » – e a un modello neoclericale di Chiesa – società che fa a meno delle mediazioni culturali, dello specifico laicale.
Certo i giovani lo sentono un po’ lontano. Ma forse è colpa nostra, colpa della nostra incapacità di comunicare. Il Concilio non va messo in museo. Con pazienza, umiltà, tenacia, va attuato per aprire le porte al futuro del cristianesimo nel tempo in cui storici e sociologi, anche cristiani, parlano di declino del cristianesimo e stato di penuria della fede cristiana. A noi spetta spalancare le finestre al soffio dello Spirito. Preparare le vie al Concilio Vaticano III … Il resto sarà opera di Dio.
Il Concilio fu il sogno di nonno Vittorio che si realizzava. Un sogno che prese di sorpresa, in contropiede, lui e i suoi amici, che tanto avevano sofferto e sognato sulle pagine di Chenu, Congar, De Lubac, Rahner, Teilhard, Lebret, monsignor Ancel, e sulle pagine di Informations Catholiques Internationales, Signe du temps, Etudes, Esprit, Il Gallo, Testimonianze, Il Tetto…
Che Dio ci ami!
lucia
gennaio 11, 2010 at 9:28 PM
Ciao a tutti,
spulciando un po’ tra le puntate de La Grande Storia
ecco la puntata del 18 settembre 2009
dedicata al Concilio Vaticano II:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-5d30f1b1-2cae-4404-80c5-4f691d72e029.html?p=0
E’ sempre interessante ritornare a delle tappe importanti della nostra storia.
Buona visione ;)))