RSS

Il progetto politico di Aldo Moro dalla Costituente alla Terza Fase

di Maria Serena Piretti, Professore ordinario di Storia contemporanea, Università di Bologna

I temi che ritroviamo nel Moro degli anni della Costituente e di quelli immediatamente precedenti, che questo avvenimento preparano, sono gli stessi che lo portano ad essere al centro della scena politica e del partito e del paese nei momenti della transizione e sono gli stessi che proprio lui richiama nella tragedia della prigione brigatista, quando ricostruisce quel suo percorso politico che, per tanti aspetti, coincide con la storia dell’Italia repubblicana, di quella che oggi nella vulgata si usa chiamare la prima repubblica.

 

Antifascismo, popolo, partito, democrazia e libertà sono i temi forti attorno a cui si costruiscono gli interventi di Moro, ma anche questi ultimi partono da una considerazione di base che Moro esplicita in apertura del memoriale e che compare per certi aspetti nei primi interventi che si collocano tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44.

 

«Io sono, come tanti altri, entrato nella DC con la spontaneità e l’entusiasmo di una scelta, più che politica, religiosa […] Si era nell’ambito di quella che si chiamava la dottrina sociale della Chiesa, fondata sulla proprietà […] con una precisa funzione sociale […]. In quel fervore iniziale c’era più fede che arte politica e tale stato d’animo restò per molti a ungo». Sono queste le parole che Moro usa per tratteggiare l’avvio della sua militanza politica ricordando l’entusiasmo del neofita che guarda in avanti pensando che il futuro possa essere costruito solo con gli uomini che sono mossi da «una fede» (e sottolineo una che è articolo inclusivo e non la che invece è escludente) ed è agli uomini che hanno una loro fede, più che al realismo politico, che Moro si affida nel tracciare i suoi primi interventi nella fiducia che si sia incominciato un nuovo cammino verso quella che lui definisce «una nuova, più vera ed umana, concezione della vita e dell’attività politica», animata da «ideali semplici e buoni di umanità. Nella quale ciascuno assolva la sua missione nel mondo, sentendola grande sempre e creatrice di storia»( A.Moro, Nuovi Ideali, ora in Id., Scritti e discorsi (1944-1947), a cura di G.Rossini, Roma, Cinque Lune, 1982, p.9.).

Il clima politico nel quale si incominciano a gettare le basi della costruzione del nuovo Stato è un clima incerto in cui soprattutto nei primi mesi che seguono la caduta di Mussolini, siamo ancora nel ’43, sembra per Moro difficile tracciare il confine tra antifascismo e fascismo in un paese dove il ventennio ha condizionato il costume, le relazioni sociali e il modo di fare politica, e dove essere antifascisti deve, nel suo pensiero, voler dire

che si rinnega quel costume e quel modo. Agli antifascisti, Moro chiede, dunque, di essere capaci di seguire altre strade dove, smessa la pratica e abbandonato il linguaggio dell’intolleranza e della violenza, si promuova il pluralismo, si rafforzi l’idea che ogni uomo debba essere responsabile, debba avere «una fede, una sua libera fede, e [debba] serv[irla] con fedeltà assoluta, fino in fondo», perché «dove il fascismo oscurò le differenze ed andò promuovendo una piatta unità insignificante, l’antifascismo dovrà lasciarle sussistere, anche quando a questo o a quello non facciano comodo, ed incanalarle verso la sola unità ammissibile, quella generata dall’incontro rispettoso e dal vaglio serio ed onesto di tutti i punti di vista».( Cfr. A. Moro, Crisi spirituale, ora in Id., Scritti e discorsi, Vol. I, cit., pp.15-16)

Queste parole, che qualcuno ha giudicato vuote “come bolle di sapone”, si traducono invece nel dibattito costituente in una ferma e precisa determinazione a sostegno di una costituzione che, come dirà Moro, rispondendo il 13 marzo ’47 in Assemblea plenaria a Lucifero, non può essere meramente afascista, ma deve avere i tratti distintivi di una Costituzione antifascista, dove l’antifascismo che deve permeare tutta la Costituzione deve emergere dalla sua netta opposizione a quella che fu, sottolinea: «la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale».

L’uomo in quanto persona e la promozione della solidarietà sociale e conseguentemente l’attenzione alle masse sono i temi che servono a Moro per declinare nel tempo la sua idea di «Stato di popolo», come ebbe a dire in un intervento all’interno della Prima Sottocommissione l’11 ottobre 1946.

Questo tema è una pietra angolare dei suoi interventi tra il ’43 ed il ’45 quando afferma la necessità di affrancare il popolo da un punto di vista politico non meno che sociale al fine di renderlo capace «d’iniziativa e di controllo della cosa pubblica». (…). L’attenzione poi a portare le masse ad essere parte attiva della Repubblica, caratteristica che farà di lui il grande tessitore delle transizioni, è definita fin da questi primi dibattiti. Richiamando il testo provvisorio del primo articolo della Costituzione, laddove si diceva che la repubblica doveva avere per fondamento oltre al lavoro la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori, Moro afferma espressamente come, compito del nuovo Stato che si va a costruire, sia l’immissione piena «nell’organizzazione sociale, economica e politica del paese [di] quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall’organizzazione economica e sociale». Riecheggiano già in queste parole le posizioni che Moro fa proprie, nella fase della preparazione dell’apertura a sinistra quando, siamo nel ’59, intervenendo a Milano, poco prima dell’inizio del VII Congresso del partito, riconosce nel pluralismo sociale la «prima espressione della nostra vita democratica». Concetto che ribadisce in sede di Congresso quando sottolinea come rimanga centrale il problema della «piena immissione delle masse nella vita dello Stato» al fine di portare a compimento la costruzione di uno Stato di tutti, secondo la visione lapiriana della casa comune. E nella stagione dei movimenti, quando il mondo giovanile e la classe operaia, protagonisti di una contestazione a tutto tondo, non si riconoscono più nella società che hanno di fronte, Moro intuisce lo scollamento che si sta producendo, ma legge in quel fermento, pur nella preoccupazione di chi ha posizioni di responsabilità, una nuova umanità che avanza, e ribadisce la pressante necessità che tra società politica e società civile si instauri un rapporto nuovo, in cui le «istituzioni [siano] capaci di ricevere ed incanalare le aspirazioni popolari, effettuare il raccordo, in termini di comune consapevolezza e di comune responsabilità, tra il vertice e la base del potere». Questa tensione la ricorda scrivendo nel memoriale quando, sottolineando la leadership plurale della Dc, se ne riconosce parte e precisa: «in essa sono stato presente ed ho fatto il mio gioco, vincendo o perdendo, anzi più perdendo che vincendo, per evitare una involuzione moderata della Dc e mantenere aperto il suo raccordo con le grandi masse popolari».(…)

E nel pluralismo, continua a vedere la cifra distintiva che deve essere mantenuta anche nelle fasi di transizione se non si vuole correre il rischio di uscire da binari solidi di un sistema democratico. Di fronte ai risultati delle amministrative del ’75 e poi delle politiche del ’76, che indicano l’accentuata polarizzazione del sistema politico attorno ai due partiti di maggioranza con un Pci in netta crescita ed una Dc che a fatica ha riguadagnato nel ’76 parte del terreno perso nel ’75, intervenendo al Consiglio Nazionale del partito, nel riconoscere che l’avvenire non può più essere diretto dalla Democrazia Cristiana, sottolinea tuttavia che «c’è posto anche per noi», cogliendo in quella trasformazione dei rapporti di forza non una mera perdita di potere ma l’indicazione di una strada aperta per portare a un livello ancora più alto quell’interazione con le altre forze politiche che segna, nel disegno moroteo, l’inizio di una «terza difficile fase» nella vita della repubblica.

E ancora nel memoriale, ricorda come a partire dalla metà degli anni Settanta si faccia più pressante nei partiti il problema del rinnovamento, la necessità di un’aumentata permeabilità con le forze sociali volta a restringere il gap tra società civile e società politica che il tempo ha tracciatoe che Moro con molta lucidità ha incominciato a intravedere all’indomani dei risultati referendari del ‘7428.

Le chiavi di volta di tutta la linea politica morotea sono però enucleate nei due concetti imprescindibilmente compenetrantisi di democrazia e libertà: nella loro declinazione passa per Moro quel difficile confine tra fascismo e antifascismo che si sostanzia nel pluralismo delle forze politiche, nell’attenzione alle formazioni sociali, nel dialogo tra società civile e società politica, nella progressiva affrancazione di tutte le classi sociali verso il governo della cosa pubblica.(…)

Nella fase di profonda crisi che il paese attraversa a metà degli anni Settanta, che Moro definisce una crisi morale prima che politica, di fronte a uno Stato i cui margini di autorevolezza sembrano essersi ridotti, Moro richiama al senso di responsabilità, non per sostituire una caduta di legittimazione con un’iniezione di autorità, ma per «presidiare in queste condizioni il regime di libertà e renderlo stabile e fecondo», sottolineando come uno dei massimi problemi dell’età in cui si sta vivendo sia proprio «l’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo»33. Di fronte dunque ai risultati elettorali, che, come abbiamo detto, confermano il restringersi dei margini di distanza tra i due principali partiti di maggioranza e opposizione, secondo Moro, ai due principali partiti spetta la responsabilità di gestire il presente e questa strada diventa percorribile solo se, per «la salvaguardia della democrazia italiana» viene garantita l’assunzione del «metodo della libertà» da parte di tutte le forze politiche del paese.

In questo senso, la terza fase investe pienamente la vita della Repubblica e non più solo la vita del partito democristiano, evidenziandone i tratti distintivi che la rendono un progetto politico compiuto. Centrale infatti permane nel discorso di Moro la necessità del dialogo tra le forze politiche, quale unica strada da un lato per la costruzione di un progetto comune capace di gestire il complesso quadro della scena politica che si ha di fronte, dall’altro per far sì che sia ancora possibile che, quell’umanesimo che, nel bene e nel male, secondo Moro, la Dc ha mantenuto nel suo Dna possa continuare a filtrare in un progetto comune.

In questa prospettiva appare allora evidente come la solidarietà nazionale rappresenti per Moro, la prima tappa di un percorso che vede le forze politiche dichiarare chiusa la tensione egemonica per il controllo dello stato nella logica dell’alternativa, per approdare poi nel lungo periodo all’alternanza tra forze politiche pienamente legittimate ad assumere la guida dello stato in una compiuta democrazia competitiva e plurale dove la partecipazione deve essere una filiera che coinvolge tutti gli elettori e le rispettive forze politiche di riferimento, in forza di un «rispetto adeguato della ‘libertà di tutti’».

Abbandonate le logiche egemoniche che si coniugano con le politiche dell’occupazione dello stato nella linea dell’alternativa, Moro spinge l’acceleratore sull’avvio di un’alternanza che consolida il potere delle forze politiche chiamate ad esercitarlo sulle basi dello Stato democratico che ha sempre per fondamento pluralismo e libertà. E’ questa non la nuova posizione di Moro degli anni che, attraverso la solidarietà nazionale, avrebbero potuto portare all’inserimento del Pci non più solo nell’area della rappresentanza ma anche in quella del governo. Per Moro, la democrazia compiuta era un progetto che la Costituzione doveva produrre e a salvaguardia del quale doveva codificare precise regole.

E’ questo il senso dell’intervento che propone in sede di Prima Sottocommissione il 3 dicembre ’46, sostenendo la necessità di «fissare con la massima chiarezza» i concetti della sovranità dello Stato nell’ambito della legge; l’esercizio della sovranità con la sua origine nel popolo; arrivando poi a dire che questi principi dovevano essere garantiti con il riconoscimento di un preciso diritto e dovere: quello di resistenza del singolo e della collettività di fronte ad uno Stato che abbandonato il costume democratico si fosse fatto promotore di atti arbitrari.

L’onnipotenza dello Stato e l’occupazione del potere da parte di forze politiche la cui volontà egemonica andasse a confliggere con democrazia e libertà era per Moro uno dei pericoli di cui sentiva la profonda immanenza con il ricordo ancora vivo del fascismo che avvalendosi della sovranità dello Stato l’aveva tradotta in «assoluta potenza, o prepotenza», e la garanzia da quel rischio doveva rimanere per Moro un passaggio chiave della Costituzione.

Nel dibattito costituente questa garanzia non venne accolta, ma si fissò, secondo quanto recita il secondo comma del primo articolo che «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il quadro internazionale della guerra fredda e i rapporti di forza portarono poi verso quella conventio ad excludendum che è a tutti nota e che fece sì che il pluralismo si mantenesse come cifra del parlamento, ma non del governo, il cui accesso rimase a lungo saldamente ancorato nei partiti dell’area centrista. Moro in questo quadro ha assunto la responsabilità delle transizioni, la responsabilità di traghettare, con tutti i limiti e le difficoltà e i compromessi che l’operazione di volta in volta comportava, verso il progressivo ritorno del sistema politico a quel pieno pluralismo che aveva contraddistinto l’età della Costituente, con l’apertura ai socialisti prima e con l’avvio della Terza fase, che avrebbe riportato piena coincidenza tra l’area della rappresentanza e l’area del governo. (…)

Questo percorso, nella complessità di quello che Moro è stato, mi pare evidenzi in ultima istanza un dato. Sempre Moro ha auspicato che il potere non fosse il frutto di una delega in bianco alla classe dirigente per la costruzione di uno «Stato giacobino» che, anche illuminato facesse riforme avanzate, bensì sempre ha intuito come il raccordo con la base fosse la cifra da perseguire quando questo significava costruzione di uno stato moderato e quando questo chiedeva di fare balzi in avanti, sempre però nel rispetto della libertà e con l’obiettivo di creare le condizioni per «la costruzione partecipata dal basso della giustizia sociale».

 

Torna ad Aldo Moro <<

 

Pubblicità
 

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...