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Una bontà naturale, un’armonia ed equilibrio

di Angelo Bertani

 

1 – UN RICORDO… UNA TESTIMONIANZA

Lo avevo incontrato la prima volta presso l’uscita laterale di San Pietro, il 5 o il 6 dicembre 1965, alla vigilia della conclusione del Vaticano II. Me ne ero venuto a Roma, da Brescia, per vivere da vicino quei giorni; e padre Manziana, vescovo di Crema e amico di Paolo VI, mi aveva portato a conoscerlo assieme ad altri “uditori”, “periti” e vescovi, protagonisti del Concilio. Mi colpì la sua cordialità disarmata, il sorriso aperto, anche allora poco frequente negli ambienti romani ed ecclesiastici. Poco dopo sarei tornato a Roma per la Fuci e poi per l’Azione cattolica. Ricordo le conversazioni, di sera in Ac, sul Concilio e il Sessantotto, soprattutto quando preparava i discorsi per le assemblee e i convegni della Associazione che stava “cambiando pelle”. Era ben consapevole che bisognava cambiare, non certo per inclinazione al trasformismo – non era il suo stile – ma perché era ben convinto che il mondo stava cambiando. Che erano in atto dei mutamenti irreversibili, che bisognava cogliere l’occasione. Erano in pochi. Io ricordo bene Paolo VI, Moro e Bachelet (ma anche Lazzati, la Pira e in modo specialissimo Dossetti). Avevano ben chiaro che nel Concilio c’era il seme della Chiesa rinnovata, della nuova cristianità povera e profetica. Povertà e profezia praticate, non predicate agli altri. Erano coscienti che nel disagio e nell’utopia dei giovani c’era, mescolato ad equivoci e intemperanze, il segno di un inappagamento, la speranza di un mondo nuovo. Una speranza che il cristiano non può mai ignorare né condannare; ma, semmai, aiutare a chiarirsi, a crescere e realizzarsi.

L’ho accompagnato da allora ai giorni della sua morte, sempre meravigliandomi di questa antropologia della mitezza unita alla semplicità francescana e ad una lucidità di giudizio che non appariva a prima vista, accompagnata com’era da distinzioni, cautele e rispetto per tutti. Via via mi capitava di scoprire sprazzi anche della sua vita precedente, in una straordinaria, “ingenua” continuità.

 

2 – LA MORTE E IL SEGNO DELLA PREGHIERA E DEL PERDONO

Molti faticano a rivivere oggi il clima teso degli anni di piombo, quelli del terrorismo e delle stragi. Da Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, il Paese fu attraversato da un segno di sangue. Bombe sui treni e nelle piazze, in obbedienza a disegni tuttora misteriosi. E attentati alle persone: gambizzazioni, rapimenti, uccisioni. Una lacerazione profonda divise l’Italia, un senso di paura e di sospetto di tutti verso tutti. Dopo le speranze e le utopie degli anni ’60, il decennio successivo fu la stagione dell’inimicizia civile. Della frattura tra giovani e adulti, tra rossi e neri, tra cittadini e istituzioni. C’era chi sparava e chi chiedeva la pena di morte.

Se è difficile ricordare quel clima, quasi impossibile è rivivere l’emozione (non dirò della morte, che tutti conoscono) ma quella creatasi ai funerali di Vittorio Bachelet, il 14 febbraio 1980, due giorni dopo il suo assassinio all’università di Roma dove insegnava. Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura e soprattutto conosciuto per essere stato per molti anni al vertice dell’Azione Cattolica italiana, era stimatissimo in tutto il Paese. Nella gran chiesa di San Roberto Bellarmino, blindata, c’erano tutte le autorità dello Stato, rappresentanti di tutte le istituzioni che piangevano accanto ai comuni cittadini e ai giovani. Celebrava il cardinale Poletti, Presidente della Cei.

In diretta Tv tutta Italia poté vedere, alla preghiera dei fedeli, un giovane dal volto sconosciuto che saliva all’altare. Era Giovanni, il figlio di 24 anni, tornato in fretta dagli Stati Uniti. Disse: «Preghiamo per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga, per i nostri governanti, per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi nelle diverse responsabilità della società, nel parlamento, nelle strade continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e con amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

L’impressione fu enorme anche per la semplicità e la totale mancanza di retorica. Parole vere ed equilibrate, in difesa della democrazia e della legalità, ma anche espressione di grande pace e bontà, sottolineate dai canti con i quali gli amici di Giovanni e Maria Grazia accompagnavano la liturgia. Molti intuirono in quel momento che la vera risposta al terrorismo era lì, davanti a loro.

Venticinque anni dopo quel 12 febbraio. È un anniversario che obbliga a riflettere. A chiederci come siamo cambiati. A decifrare gli avvenimenti di quella stagione drammatica. Che cosa è accaduto poi. Che cosa ci resta. Che cosa c’è di vero, e quanto di non ancora manifesto, nel mistero di dolore e di inquietudine che furono gli anni di piombo.

Quanti giudici e professori, giornalisti e agenti di polizia o carabinieri, e politici (di quelli che cercavano il bene dei cittadini) furono uccisi; ed ogni mattina ci si chiedeva a chi potesse toccare. E sapevamo che gli assassini non erano banditi volgari, ma giovani che qualche follia e disillusione o qualche nascosta malvagità aveva portato a credere che così si poteva migliorare il mondo….

Ma li ricordiamo i nomi? Da Moro a Mattarella a Ruffilli, da Taliercio a Rossa, da Alessandrini a Galli a Tobagi, fino a Tarantelli e a tantissimi altri… Fra dieci anni non ne ricorderemo più i nomi. Fra vent’anni ci diranno magari che il terrorismo era una guerra civile per abbattere la prima repubblica. E noi confonderemo le bierre con tangentopoli, la Cia con il Kgb. Non sapremo più nulla e crederemo a tutto, nel gigantesco frullato massmediale di vero e falso, reale e virtuale; così come oggi qualcuno comincia a credere che i martiri della Resistenza erano degli illusi o dei faziosi combattenti di una guerra civile. Ricordo che Franco Salvi si era ritirato dalla politica – che era la sua vita – quando si cominciò a dire, senza spiegare né reagire, una cosa del genere a proposito dei “ribelli per amore”…

Forse ci vorrebbe un monumento grande e significativo, vivente, dedicato a questo martirologio civile degli anni ’70. Per non dimenticare e per cercare di capire. Altrimenti, come possiamo pensare che i giovani riescano mai a ri-amare la politica, capirne il senso, districarsi nel labirinto delle parole false e dei significati equivoci?

Oggi i cattolici si chiedono come fare ad essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso e persino ambiguo, ma una risposta c’è: fare come Bachelet. Far crescere tanti cittadini credenti, laici cristiani come Vittorio Bachelet. Non è facile, ma forse non ci proviamo neppure perché troppo alta e disinteressata appare la loro testimonianza, troppo pericolosa la loro libertà, poco redditizia la loro militanza.

Vittorio condivideva la fermissima convinzione di monsignor Costa, che il cardinale Ballestrero riassumeva così: “Preferiva essere uno sconfitto a motivo della sua mitezza che non un vittorioso a motivo della sua forza”.

Per lui il servizio era proprio servizio, senza ricambio né gloria. Era una di quelle rare persone che pensano e che fanno; e conservano la coerenza tra le parole, i pensieri e i fatti.

Tra tutte le cose che come cattolici italiani abbiamo fatto in questi vent’anni, tra tutti i segni di una presenza che si vorrebbe più efficace (il che non significa più “forte” o vistosa), io credo che forse il momento più alto lo abbiamo vissuto la mattina del 14 febbraio 1980. Quella preghiera ha contribuito più di ogni altra cosa a fermare il terrorismo. E si è concretizzata nel comportamento di tutti i tuoi cari e di tante altre persone provate dalla violenza e dal dolore.

Non possiamo dimenticare padre Adolfo, che non solo ha perdonato, ma ha consumato gli anni della sua vecchiaia andando di carcere in carcere per parlare e ascoltare giovani, terroristi e non, accompagnandoli nel cammino di conversione. Questo è davvero un segno del tempo che viene, della primavera che ci sarà, nonostante l’inverno e la nebbia che ci sembra di avere intorno e talora anche nel cuore. La nostra società, complessivamente, non è stata degna di quegli esempi. Ma sono fiducioso che quelli che oggi sono giovani sapranno vincere ogni tentazione di disillusione e di ignavia, e sapranno sognare e costruire un mondo nuovo e migliore, «con coraggio e con amore».

«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello, la mucca e l’orsa pascoleranno insieme ». Citava Isaia e il suo annuncio dei tempi messianici, padre Adolfo Bachelet, il fratello maggiore di Vittorio. E commentava: «Ebbene, questi tempi messianici sono già presenti,io li ho vissuti. Li ho vissuti quando ho letto la risposta di una vedova agli uccisori del marito che chiedevano perdono; lei scriveva ‘abbiamo fiducia di costruire insieme un avvenire di speranza’. Li ho vissuti quando ho veduto in carcere un uomo stringere con cordialità la mano tremante di una donna che aveva partecipato al suo ferimento.

Adolfo era il fratello maggiore di Vittorio. Quando il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura fu ucciso, il 12 febbraio 1980, Adolfo era un anziano religioso, economo della Compagnia di Gesù. Spirito libero e arguto, i nipoti lo ricordano come un magico nonno capace di tutto: giocare e pregare, aggiustare i fili della luce, far da mangiare, spiegare i problemi più complessi, parlare con chiunque…Forse per questo nel 1983, tre anni e mezzo dopo la morte del fratello, ricevette una lettera firmata da 18 ex terroristi, che lo invitavano ad andarli a trovare in carcere. «Mi parve logico e doveroso accettare quell’invito», dirà poi, «ricordando che sant’Ignazio voleva i gesuiti dediti alla predicazione e all’amministrazione dei sacramenti, ma anche alla riconciliazione dei dissidenti e a soccorrere quelli che sono nelle carceri».Dunque ci andò, e non una volta soltanto.

In dieci anni incontra centinaia di detenuti, uomini e donne, italiani e stranieri. Dapprima soprattutto ex terroristi di destra e sinistra; poi anche comuni. Frequenta tutte le più importanti carceri italiane, con moltissimi detenuti tiene una fitta corrispondenza epistolare. E quando escono Si presentava ascoltando. Era convinto che quelle erano le persone più bisognose della misericordia di Dio. Pensò alla parabola del figliuol prodigo: «Mi pareva che il mio atteggiamento dovesse adeguarsi per quanto possibile a quello del padre celeste: cordialità, amore paterno e anche fraterno, oblio del passato, attenzione alle buone disposizioni presenti, fiducia e incoraggiamento per il futuro». Ricordo che quando sentivo queste parole pensavo: anche Papa Giovanni avrebbe detto così.

Ed ecco le meraviglie di Dio, la nuova creazione che rinasce sopra le rovine: «So di decine di ex terroristi che stanno spargendo amore in mezzo agli emarginati, impegnandosi in opere assistenziali con generosità e delicatezza. Hanno sperimentato su di sé l’amore di cui Dio li ha investiti e ora lo riversano sul prossimo, amandolo come se stessi e anche di più. E poi ho visto nelle carceri convivere pacificamente nella stessa sezione terroristi di destra e di sinistra; ho visto detenuti deporre il loro rancore verso coloro che, facendo nomi, li avevano fatti arrestare. Ma particolarmente meravigliose sono state le numerose rappacificazioni a cui ho assistito, tra le famiglie delle vittime del terrorismo e chi li aveva privati dei loro cari. E sono state decine e decine le famiglie che hanno concesso immediatamente il perdono ai terroristi uccisori”.

Ma l’opinione pubblica non lo sa. Queste riconciliazione hanno in genere evitato la pubblicità, si sono realizzate grazie a qualche intermediario, lontano dai riflettori, magari con uno scambio epistolare; ma non sono mancati i casi di incontri personali culminati nella partecipazione comune all’Eucarestia.

Ai funerali di padre Adolfo, nella antica Chiesa del Gesù, vicino al centro Astalli dove i gesuiti ospitano rifugiati da tutto il mondo, c’erano cardinali e politici di ogni parte, ex-terroristi rossi e neri accanto a poliziotti e magistrati, suore, studenti. Tutti, compreso Caselli e la sua scorta, sembravano parrocchiani di una chiesa possibile e più grande, un ponte lanciato, oltre una stagione di violenza e di speranze impazzite, verso il futuro, verso un tempo nuovo di serenità e di pace ».

Qualche anno dopo un ex terrorista condannato all’ergastolo fece arrivare alla famiglia questo biglietto: «La testimonianza che a noi tutti diede la famiglia di Vittorio Bachelet ci interpellò, forse per la prima volta, sul senso etico della nostra azione e della lotta armata. Per la prima volta ci sentimmo interpellati eticamente e la cosa ci turbò assai; le nostre certezze cominciarono a scricchiolare come il colosso di Rodi. All’ora d’aria del giorno dopo nessuno di noi voleva ricordare quel fatto. Poi uno dei nostri capi storici ci provocò sull’episodio e capimmo che tutti, dico tutti, ne eravamo stati profondamente colpiti. Credo che quell’episodio segnò le nostre azioni da quel momento in poi».

Ai funerali di padre Adolfo c’erano tutti, rossi e neri, ex terroristi e giudici, suore e poliziotti.

 

3 – IL TEMPO CHE E’ PASSATO

Sono passati più di quarant’anni dall’inizio del Concilio, pochi meno dal Sessantotto, venticinque dalla morte di Bachelet. In questi ultimi decenni abbiamo potuto vedere come il mondo ha continuato a cambiare, con ritmo crescente, anche se molti continuano a negare l’evidenza. Abbiamo assistito alla scomparsa, quasi, del comunismo e, in Italia, del partito democristiano per non dire di quello socialista. Non ci scriviamo più lettere, ma e-mail che viaggiano in tempo reale; sappiamo tutte le notizie e vediamo tutte le immagini non solo attraverso centinaia di canali, anche via satellite, ma sul video di Internet e persino sui telefonini. Alla sera non si va più in associazione o in sezione: si sta a casa davanti al video. Abbiamo tutti il computer in casa, in borsa, in tasca, in ufficio… C’è molta gente che “lavora” comprando azioni virtuali la mattina, dal monitor di casa, e vendendole la sera. Le società che fanno programmi per computer valgono e guadagnano più di quelle che fanno automobili o vendono petrolio. L’Italia è diventata il Paese dove nascono meno bambini, pur essendo ancora tra quelli con una maggiore percentuale di praticanti (ma c’è forse quello che alcuni chiamano uno “scisma nascosto”…). Le nostre biciclette e i palloni da calcio vengono fabbricati in Asia, magari da bambini-schiavi. In certi paesi si muore di fame e in molti altri si distruggono immense riserve alimentari. Vi sono continenti in cui si combatte contro la sterilità del terreno, altri ove si pagano i contadini purché non coltivino la campagna. Molti bimbi vengono rifiutati fin dal seno della mamma ed altri vengono cercati a tutti i costi e quasi costruiti artificialmente. Tutto il mondo è un mercato, ma non è né equo né solidale; anzi, è difeso e ampliato con l’ uso spregiudicato della forza e delle armi. Abbiamo la sensazione di essere trascinati dagli ingranaggi di una gran macchina che gira veloce, dura e violenta. Che promette una felicità impossibile e rischia di toglierci la libertà della coscienza, la gioia dello spirito e talora il senso stesso dell’esistenza.

In questo credo che sarebbe stato d’accordo con l’ultimo Dossetti che diceva: «Viviamo in una crisi epocale. Credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Noi siamo come alla fine di una terza guerra mondiale, che non è stata combattuta, ma che pure c’è stata in questi decenni. Che è in qualche modo finita, con vinti e vincitori, o con coloro che si credono vinti e altri che si credono vincitori. La pace, o un punto di equilibrio, non è ancora stata trovata, in questo crollo complessivo. Si pensi a che cosa è accaduto della Russia. Ma la democrazia americana, anche se ha vinto, non può proporre niente e sino ad oggi non ha proposto niente. Il rimescolo dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È un rimescolo totale. E in più c’è la grande incognita dell’Islam. E noi non abbiamo strumenti intellettuali per interpretare adeguatamente tutto ciò. Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica, questa visione; è realistica; non è pessimistica perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non viene meno. L’unico grido che vorrei far sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancor più grosse e globali, attrezzatevi per dei rimescolamenti più radicali. Non cercate nella nostra generazione una risposta, noi siamo veramente solo dei sopravvissuti».

La testimonianza di Vittorio e la sua coscienza del tempo ci sono vicine. Le sentiamo vive nell’animo. Come sappiamo, perché il tempo è difficile, ambiguo, pieno di incognite e di pericoli gravi. Nubi gravi si addensano sulla democrazia e la libertà, sulla autonomia delle coscienze, sulla speranza del futuro. C’è oggi, davanti a noi, la esibizione di tutte le apparenze, la potenza – l’onnipotenza – di tutti gli strumenti. E la gran povertà – peggio, un collocarsi ambiguo – dei punti di riferimento culturali e morali, talora pronti a servire a qualunque fine (o padrone). Sì, ancora un tradimento dei chierici.

Noi sentiamo attuale la sua coscienza del tempo proprio perché vediamo che questo tempo è lontano da quello. Ne è figlio, certo. Ma abbiamo compiuto un gran tratto di strada, come Bachelet ci aveva avvisato.

Molte volte ci diceva che il mondo stava cambiando in profondità.

E si augurava – e lavorava perciò – che la comunità ecclesiale fosse capace di raccogliere la sfida. Il che è avvenuto solo molto, molto, molto parzialmente.

Aveva una percezione acuta del cambiamento – che per molti aspetti in Italia era appena incominciato o almeno ancora poco visibile, pensate alla sorpresa del referendum del ’74! – e vi dedicava tutti i ritagli di tempo per pensare, valutare (questo lo ricordo bene la sera, le notti per preparare le relazioni…) e pur sempre con serenità e speranza, preoccupandosi degli ultimi piuttosto che delle avanguardie. Il popolo semplice, le vecchiette, si diceva: non come alibi per una restaurazione e per troppa prudenza. Ma come sforzo di recupero, conversione, pedagogia della discrezione, ispirato dalla carità, dalla scelta per gli ultimi.

Ricordo che alla fine del 1971 quando Dossetti fece sapere – tramite un articolo su Panorama, indirettamente – che andava in Terrasanta perché “qui non c’era più nulla da fare” (così il messaggio apparve sui giornali e poteva esser percepito dalla gente) Vittorio ci restò male ed ebbe anche una certa reazione.

Non stiamo qui a dire quel che ci fosse di profetico nel giudizio storico di Dossetti e quel che fu malinteso. Voglio solo sottolineare che Vittorio viveva una unità profonda tra la prospettiva a lungo termine, l’orizzonte, e gli impegni del quotidiano, il “qui ed ora”.

Credo di poter dire che il dissenso non era sulla prospettiva escatologica (certo ritenevano entrambi che mai ”tutto è perduto” perché sta nelle mani di Dio che guida la Storia). Neppure era sul giudizio storico, la valutazione di fatto. La diversità è che Vittorio riteneva che comunque, sempre, bisogna spendere le energie per aiutare i deboli e gli incerti, rispettare la canna fessa e il lucignolo fumigante. E tuttavia, anche, seminare il futuro.

 

4 – LA SUA LEZIONE DI STORIA E DI FEDE

La scelta religiosa nasce da questa coscienza di un radicale trapasso; e anche dalla volontà di non perdere nessuno di quelli che con semplicità e buona fede incontravano difficoltà nell’attraversare il tumultuoso fiume della storia.

C’è, illuminante, una citazione, mille volte ripetuta, sono parole di Vittorio Bachelet per spiegare la scelta religiosa, da un’intervista del 1979, che ripete parole del 1965:

«Di fronte a questo mondo che cambia, di fronte alla crisi di valori, nel cambiamento del quadro sociale e culturale, for-se con una intuizione anticipatrice, o comunque con una nuova consapevolezza l’Ac si chiese su cosa puntare. Valeva la pena correre dietro a singoli problemi, importanti, ma consequenziali, o puntare invece alle radici? Nel momento in cui l’aratro della storia scavava a fondo rivoltando profondamente le zolle della realtà sociale italiana che cosa era importante? Era importante gettare seme buono, seme valido. La scelta religiosa – buona o cattiva che sia l’espressione- è questo: riscoprire la centralità dell’annuncio di Cristo, l’annuncio della fede da cui tutto il resto prende significato. Quando ho riflettuto a queste cose e ho tentato di esprimerle ho fatto riferimento a S. Benedetto che in un altro momento di trapasso culturale trovò nella centralità della liturgia, della preghiera, della cultura il seme per cambiare il mondo, o – per meglio dire – per conservare quello che c’era di valido dell’antica civiltà e innestarlo come seme di speranza nella nuova. Questa è la scelta religiosa».

Questo pensiero, così pacato e così lucido, credo che si può affiancarlo ad un altro giudizio, contenuto in una lettera del cardinale Consalvi ad Annibale della Genga il futuro Leone XII, scritta giusto 200 anni fa:

«Invano mi son fatto rauco in dire che la rivoluzione ha fatto nel politico e nel morale ciò che il diluvio fece nel fisico, cambiando del tutto la faccia della terra, e che Noé, uscito dall’arca, bevve il vino e mangiò le carni e fece altre cose che prima del diluvio non faceva, facendo riflettere che il dire che questa o quella cosa non si faceva prima, e che le nostre leggi erano ottime, e non si deve variar nulla, e cose simili, sono errori gravissimi, e che finalmente una occasione simile di riedificare, or che tutto era distrutto, non torna più».

Ecco, la percezione della novità. Io non credo che ci sia solo un’intuizione intelligente, e tantomeno soltanto una furbizia, nell’accettare il cambiamento della storia, nel vederlo, anzi pre-vederlo, interpretarlo. C’è una docilità alla voce dello Spirito, un’obbedienza che è quella dei profeti (anche se Vittorio insisteva molto di non essere profeta né figlio di profeti).. Percepire la novità, resistere alla violenza del sistema che difende l’immobilità del suo potere.

Nasce qui la scelta religiosa, che non è una presunzione, né un’evasione spiritualistica. Nasce da un giudizio storico, severo e radicale (e che gli creò pure incomprensioni…). Nasce dalla convinzione che il regime di cristianità sia avviato ad una irreversibile tramonto e che, piuttosto che tentare restaurazioni – impossibili e neppure desiderabili – convenga piuttosto prepararsi ai tempi nuovi ripartendo dalle fondamenta, dal nucleo essenziale della fede, dalla fede nuda e pura, come dirà Dossetti. La radicalità del cambiamento impone un mutamento di scenario, ripartire dalla radice e prepararsi ai tempi lunghi, in attesa che quel che si è seminato cominci a germogliare e infine (ma quando sarà?!) a dar frutto.

E tuttavia Vittorio, accanto alla diagnosi lucida del processo storico conservava sempre questa attenzione alle persone, al quotidiano. Allo sforzo costruttivo di ogni giorno. Pensare al futuro, ma fare anche tutto il possibile oggi; senza mai cedere al pessimismo perché è sempre possibile fare qualcosa.

Credo che Vittorio avesse fatto sue le parole che Andrea Trebeschi aveva scritto poco prima di essere portato a Dachau, e di morirvi, 55 anni fa:

«Se il mondo fosse monopolio dei pessimisti», scriveva Trebeschi, «sarebbe da tempo sommerso da un nuovo diluvio; e se oggi la tragedia sembra inghiottirci, si deve alla malvagità di alcuni, ma soprattutto all’indifferenza della maggioranza. Il simbolo di troppa gente non ebbe, fin qui, che due articoli:

“non vi è nulla da fare”

“tutto ciò che si fa non serve a nulla”

Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca di persona alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale e morale.

Un mondo nuovo si elabora. Che sia migliore o ancor peggio, dipende da noi».

 

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